Non profit

L’anello mancante della legge Biagi

Cgil e Rifondazione: l’abolizione della legge Biagi dovrà diventare un punto prioritario, nonostante il programma condiviso dell’Unione non parli affatto in questi termini.

di Giuseppe Frangi

E’la prima patata bollente tra le mani del governo che ancora non c?è: Cgil e Rifondazione hanno fatto sapere che l?abolizione della legge Biagi dovrà diventare un punto prioritario, nonostante il programma condiviso dell?Unione non parli affatto in questi termini. Ma impostata così la questione è viziata alla radice, sia che si difenda la Biagi (magari riformata), sia che se ne voglia far piazza pulita. Impostata così elude la questione vera e riduce ancora una volta il dibattito a un teatrino mediatico. Cerchiamo di spiegare perché. Questa legge ha avuto un grande merito e ha un grande limite. Il merito: ha cercato di costruire un nuovo impianto giuslavorista, prendendo atto che le forme di lavoro non erano più solo quelle tradizionali. L?esplosione incontrollata dei co.co.co era lì a dimostrarlo. Ha introdotto perciò un elemento di discontinuità, riconoscendo quello che nella realtà era ormai un dato di fatto: la società flessibile – con i suoi limiti, i suoi rischi e le sue potenzialità – aveva scardinato un sistema irrigidito e incapace di creare sviluppo. Il limite: la Biagi ha approcciato le nuove forme di lavoro mantenendo come architrave il vecchio sistema di welfare. Così il vero obiettivo è diventato quello di riportare, attraverso un processo non traumatico per il sistema produttivo, le ?vittime? della flessibilità entro le forme classiche del lavoro salariato a vita. Si tratta di un limite in un certo senso comprensibile, perché dettato dall?assillo di un contesto che tante volte sconfinava nell?abuso e nell?anarchia, come dimostra la direttiva recentemente ventilata dal ministro uscente del Welfare, di dare un?interpretazione molto più restrittiva dei contratti co.pro. Insomma, con la legge Biagi si è tentato di alzare qualche fragile barriera difensiva, ma in compenso ha fatto sì che i lavoratori flessibili diventassero una sorta di figli di un dio minore: con meno salari, meno diritti, meno pensione… Un merito e un limite. Ma soprattutto un anello mancante che se Marco Biagi fosse stato vivo al momento dell?approvazione della ?sua? legge non avrebbe certamente eluso. L?anello mancante infatti doveva essere la vera architrave della riforma: la creazione di un sistema di welfare in grado di rispondere ai nuovi bisogni. Se non si ridisegna il welfare, se non si mettono risorse, qualsiasi dibattito sulla Biagi diventa un dibattito accademico e improduttivo. Si riduce a confronto disperato tra chi si arrocca sulla difesa di un sistema che non si regge più e chi, all?opposto, cerca di non levare quel minimo di ossigeno a un?economia declinante. In questi giorni è uscito in edizione italiana il nuovo libro del più famoso sociologo della società flessibile, Richard Sennet. Tra le pagine Sennet delinea quello che secondo lui dovrebbe essere il welfare del futuro: un welfare che accompagni percorsi individuali, che dia spazio a nuove forme di mutualità autogestite, che contempli profili infinitamente più variegati e a più tappe rispetto quelli lineari del passato. Solo così la flessibilità finirà di stare in bilico sul precipizio di una neo schiavitù e verrà trasformata in un?opportunità di ricchezza e di crescita individuale e collettiva. Senza nessuna nostalgia verso un mondo che non c?è più. Chi demonizza la flessibilità è nostalgico di un sistema che non tornerà più.


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